grazie a dio non siamo meridionali

no mamma, non verrò con nano a catramanzi”

Non so che tipo di vacanze faceste voi da piccole, io andavo in villeggiatura. Lo so io vivevo al mare, ma questo è un vantaggio solo agli occhi di chi non ci abiti e fra gli anni settanta e ottanta per non sentirsi poveri la villeggiatura era d’obbligo. Sarà perché mia nonna mi faceva guardare i film con gli “artistoni americani” e in mancanza di quelli ci sorbivamo i film con l’indagatore Poirot, ma io della villeggiatura ho sempre avuto un’idea decadente. La villeggiatura nella mia mente andava spesa in ameni luoghi assolati dove a ogni buon conto era meglio coprirsi giacché solo i cafoni si abbronzano. Giorni lenti, vestiti fiorati di mussola, tè delle cinque con sandwich ai cetrioli in ceramiche vittoriane, servitù scrupolosa e discreta. Unica alternativa all’ozio poteva essere passare le acque, ma per quello mi sarebbe servito almeno un accenno di tisi, ma soprattutto si era preceduti dai propri bagagli e dalla servitù che provvedeva a tutto in modo che i villeggianti all’arrivo avessero solo da rinfrescare le accaldate membra.

Per questi ed altri motivi non ho mai capito perché a casa mia si ostinassero a chiamare villeggiatura quella roba che facevamo noi.

La vacanza iniziava con il caricare la macchina, caricare appunto, noi ci portavamo in campagna di tutto per limitare al minimo le spese in loco. Affittavamo una casa sempre la stessa per due mesi, i restanti dieci era vuota, perché mai non lasciavamo tutto lì? mistero. Quando dico che ci portavamo tutto voglio proprio dire tutto: l’olio, la scatola del cucito, i cerotti, la televisione e perfino il sale, oltre i vestiti, che la villeggiatura va bene, ma poveri in spirito siamo e poveri resteremo. Le cose non erano mai in contenitori adeguati, ma trattenute fortunosamente all’interno di borse di recupero, roba da vergognarsi o almeno io me ne vergognavo. Il “carico” veniva portato da casa fino al portone e giù nella via stivato sulla 127 blu.

Credo che al rastrellamento del ghetto di Varsavia in strada ci fossero meno pacchi e cianfrusaglie.

Io facevo parte del carico, nell’ardito gioco di incastri che ci consentiva di portare da casa anche i fotoromanzi passati a mia nonna da sua sorella, io ero un pezzo. A metà imbarco venivo fatta sedere e poi attorniata dal restante copia copiarum cosicché all’occorrenza potessi in curva bloccarne lo scivolamento. Le operazioni di carico terminavano con la deposizione sul portapacchi delle due valigie in similpelle nere. La protezione, da cosa lo sa solo dio, delle valigie era affidata ad un plaid dono dell’ACI.

Arrivati a Catramanzi avevo di solito vomitato almeno due volte, disfatto il mosaico delle mercanzie autotrasportate e innervosito entrambi i genitori. Ricordo viaggi lunghissimi, estenuanti: Catramanzi dista 68 km dalla liguria.

Grazie a Dio non siamo meridionali, non sarei sopravvissuta al viaggio.

Commenti

Mammamsterdam ha detto…
Noi ogni qualche anno andavamo in Polonia dai nonni e capisciaamè, con la cortina di ferro.... eravamo impacchettati uguali e passavo le 30 ore a litigare con mio fratello.

Magari per questo non ci andavamo tutti gli anni.
Anonimo ha detto…
Noi anche dalla liguria al basso piemonte in 127 però bordeaux (circa) e valigione similpelle rosse. Poi uguale uguale. Ah, e con sorella minore! Quando la torino savona era a doppio senso di marcia... Chissà come abbiamo fatto a sopravvivere.

Mammagatta

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